Quinlan

Terra di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani è un esempio di fantascienza umanista che mescola immagini d’archivio, voci narranti, “godardarismi” e riflessioni sul mezzo. In concorso a Pesaro 2015.

Odissee senza più spazio

Una misteriosa forza cosmica minaccia di porre fine alla vita sulla Terra. Un viaggiatore da altri mondi, l’unico che può decidere il futuro dell’umanità, ci guida attraverso le testimonianze del passaggio dell’uomo sul pianeta. Assunta una forma umana, il viaggiatore trova aiuto in una giovane donna. E mentre i sogni degli uomini vengono alterati, varie storie si intrecciano, unite nell’attesa di un destino che forse può ancora essere cambiato. Tra rovine del passato e dimensione contemporanea, fasti lontani e attualità tecnologiche, voli spaziali, bellezze perdute e volti antichi, il film mescola immagini documentarie, materiali d’archivio e foto d’epoca.

La vita sulla Terra finisce (inizia?) con una capriola, poi un’altra, poi un’altra ancora; volti femminili sorridenti, uomini sovietici nello spazio, e in volo impossibile di nuovo verso la Terra. Nella pre/post-apocalisse disegnata da Marco De Angelis e Antonio Di Trapani nella loro seconda incursione nel lungometraggio, dopo Tarda estate (2010), la memoria umana resta ancorata solo nell’ingranaggio meccanico o digitale. Solo la tecnica può conservare il ricordo di un’umanità destinata invece all’oblio.
“Oh uomo, sii attento! Che dice la mezzanotte fonda? «Io dormivo, dormivo… Da un sogno profondo mi sono risvegliato… Profondo è il mondo, e più profondo che nei pensieri del giorno. Profondo è il suo dolore, il piacere, più profondo ancora della sofferenza. Dice il dolore: perisci! Ma ogni piacere vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità!»”. Così parlò Zarathustra, per Friedrich Nietzsche, e così parla Terra al suo pubblico. Il sogno profondo da cui si risveglia l’universo in disfacimento è quello di una resistenza alla propria decadenza da cui non esiste via d’uscita. “Ogni piacere vuole eternità”, e forse il cinema più di tutti. Forse nell’immagine si trova ancora quel brivido d’infinito che ha abbandonato l’occidente.

Non è un caso che De Angelis e Di Trapani si muovano in percorsi accidentati attraverso la voce: sono le parole pronunciate da Hal Yamanouchi e Angela Carbone, e prima ancora da Júlio Bressane, Lou Castel, Franco Nero, Hélène Sevaux, a indicare la via a uno spettatore che non può che sperdersi nella landa desolata e abitata da spettri del passato, immagini d’archivio che travalicano l’inganno del tempo, superano le coordinate obsolete dello spazio.
Così come il viaggiatore di altri mondi interpretato da Yamanouchi si ritiene un “catalogatore di anime, raccoglitore di dati” su un pianeta destinato (come molti altri prima di lui) all’estinzione, anche Terra cataloga anime e raccoglie dati. Confusi, e costretti dunque a ricollegarsi tra loro attraverso l’affastellamento di figure retoriche.
In qualche modo Terra sembra la prosecuzione naturale del discorso già avanzato in Tarda estate: se lì il riferimento a Ozu insito nel titolo si dipanava in un discorso sull’immagine come ricollocazione umana in uno spazio “originario”, in questo caso l’immagine diventa veicolo di una frammentazione che è tuttavia salvifica, ultima boa, ancora a cui aggrapparsi contro la marea montante della (auto)distruzione.
Non tutte le scelte del duo di registi convincono, e a volte l’impressione è che si lascino prendere le mani dal “bello”, anteponendo l’estetica al fulcro nevralgico del discorso (l’analogia tra la tortora viva e quella affrescata sul muro è segno di una via di quando in quando troppo facile da perseguire), e anche il dedalo citazionista corre il rischio di disperdersi in un innamoramento colto quanto fine a se stesso, ma l’impressione è combattuta – a colpi di immaginario, ovviamente – da un’ispirazione lirica che continua a porre De Angelis e Di Trapani in un territorio alieno, almeno per quel che concerne il panorama italiano.

La resistenza umana che propone Terra passa attraverso Marcel Proust quanto Christoph Willibald Gluck, le sanguisughe giganti dirette da Bernard L. Kowalski e prodotte da Roger Corman, Johann Sebastian Bach e King Vidor, gli uomini nello spazio e i beduini che attraversano in carovana le dune desertiche. L’unico linguaggio possibile – sullo schermo si alternano l’italiano con accento giapponese e l’inglese, il francese e il portoghese – è quello della visione, universale e immortale perché eternamente ricostruibile, montabile, da modellare e ri-formare. In attesa del giudizio, e della distruzione. La καταστροφε, che è rivolgimento, ma mai fine.

Raffaele Meale

26/06/2015

https://quinlan.it/2015/06/26/terra/