Filmcritica

L’idea di partenza è la partenza. Marco De Angelis e Antonio Di Trapani.

La scelta, per alcuni versi eccentrica, di girare fuori dall’Italia, in un’altra lingua e quindi con attori stranieri, non ha nulla di programmatico. Scaturisce invece da una dolorosa, urgente, ineludibile necessità di bellezza e allo stesso tempo di astrazione rispetto a opprimenti debiti di contingenza con l’attualità e con i suoi risvolti sociali di cui si fa parassitaria e insincera portavoce, secondo noi, larga parte della produzione italiana. Abbiamo sentito allora la necessità di quell’abbandono amoroso che solo il viaggio ci poteva donare: l’idea di partenza di Tarda estate è stata, infatti, la partenza stessa. A spingerci è stato non solo l’amore per il cinema dei maestri giapponesi, ma l’interesse per un mondo che si presentava ai nostri occhi già fortemente codificato, rarefatto e stilizzato insieme (basti pensare, per fare un esempio, ai tratti somatici dei suoi abitanti). Questo universo segnico, impenetrabile e nostalgico, ci ha permesso di soddisfare, al di là dell’improvvisazione necessaria in un’opera aperta agli stimoli del viaggio e realizzata unicamente da noi due (con il supporto di Junko Mori) e con pochissime migliaia di euro, l’esigenza di un determinato rigore stilistico.

Agamben osserva come per Aristotele “oggetto della vista è il colore, più qualcos’altro per cui non abbiamo un nome, ma che egli suggerisce di chiamare il diafano” (G. Agamben, La potenza del pensiero, cit., p.277). Sarebbe un “propriamente visibile” dei corpi che attiene a un altrimenti che la trasparenza. In Tarda estate di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani questa qualità del diafano trascorre appunto in un’attitudine che lateralizza le immagini, le spinge in uno scivolamento del dettaglio, in un modo di dis-inquadrare che diventa uno spostarsi, un disallocare le immagini che anche qui disloca e mette in viaggio, in una partenza (dall’Italia) e in un ritorno (in Giappone) che, come un Falso movimento, non attiene al racconto ma al suo esser messo fuori, allontanato come dietro un velo, un vetro, una superficie acquorea, un aleggiare nello spazio che non solo si richiama agli spazi assorti e sospesi di Ozu o alle sospensioni e scivolamenti e scorrimenti di luoghi di Hou Hsiao-hsien o di Tsai Ming-liang (e in tal senso il giro sferico, il buco in cui avviene un precipizio nel silenzio, la voce, il canto, gli alberi, il vento, i paesaggi come autosospinti o immersi nell’immoto suona sempre come un rimando, uno spostamento dall’identificazione, dall’appartenenza, per cui il film sembra venire da un altro pianeta, da quella Via Lattea, o da quell’orizzonte di fiamma sospesa con cui si apre il film e che subito dichiara un appuntamento altrove, uno spostamento del sentimento del trovarsi di un set, che sono le “vedute” romane, il busto di marmo e le cupole o il tè fumante sul tavolo o gli uccelli in volo a stormo su Roma, attratte come da un richiamo stellare verso luoghi altri, dove il Giappone o l’Oriente è una idea filmica, come il titolo o il palloncino rosso che vola via come un leggero richiamo, più che una citazione), ma assorbe in sé un paesaggio e un attraversamento, di nuovo un riflesso, un sospingere verso l’habitus, verso una veste della finzione che ha un peso specifico e una leggerezza, la bellezza di una attenzione vuota, lo sguardo verso l’orizzonte, ancora una volta di spalle (“Eri di spalle, mi ero innamorato di te prima ancora di vedere il tuo viso), fuori campo, lungo le durate tagliate sui dettagli di mani e di piedi, nel movimento lento, nello scorrere sul landscape, sugli skyline, dove i camera-car non sono altro che l’emergere del vuoto, immagini aeree, gesti d’aria e di pietra, sovraesposizioni. 

Il film si apre su un paesaggio giapponese dipinto e subito si inoltra in un landscape alla 2001, e infatti l’appuntamento di una “doppia immagine nello spazio” (“oggi è il settimo giorno della settima luna”) apre il varco al fantasma dell’amata, a un firmamento interiore e immensamente perso nelle profondità dello spazio, in quella geografia immaginale composta dalle stelle Vega e Altair, dal Fiume celeste, in una mitologia astrale che è tanto l’ingresso in una sorta di osservatorio, quanto gli occhi puntati verso il cielo, quanto la simmetria delle inquadrature in interni, le finestre e le foto di lei, di Noriko, nel lontano-prossimo e nell’altra temporalità dell’appartamento romano che è come un’astronave-feto già sempre in viaggio verso il Giappone della tarda estate (dove sospira appena un autunno che si riceve con dolore ed amarezza), che emergono da un’acqua mossa e stagnante insieme come l’accumularsi di lacrime “delle cose” e come l’incollocabile ambiente che emerge da una sorta di coalescenza dei due luoghi in potenza che si attualizzano solo nel pensiero: l’acqua e il legno, i rami rossi istoriati di caratteri giapponesi, le piscine e le vasche da bagno, dove è immerso alternativamente il corpo di lei, che chiama il corpo di lui. E lui, giapponese straniero nel proprio paese, si chiede: “Dietro quale orizzonte sta fuggendo la mia vita?”. Lo sappiamo dall’inizio: “Gli dei concessero agli amanti di incontrarsi una volta all’anno il 7 luglio”, e di vedersi solo in quel tempo-luogo, ancora e solo filmico, come in Stanley Kwan. 

Il filmico però non è un ripiego citato, ma è come se si posasse in sospensione, nelle cose, nelle nature morte, nell’insistenza del soffermarsi sulle mani che si posano sulle ginocchia, o sui piedi che si posano sul tappeto, come le dita sui pianoforte del concerto mozartiano o le trasparenze dell’acquarello di William Blake, o i ghirigori canori di Puccini. Il film allora viene custodito e insieme fugge tra le dita, qui e altrove, in un punto d’incontro spostato, come l’uccellino tra le dita, qualcosa che si lascia andare e lo si riprende da un altro lato, chiudendo e aprendo gli occhi. “Quando per l’assenza di sorgenti luminose o perché teniamo gli occhi chiusi, noi non vediamo oggetti esterni, questo non significa, per la retina, l’assenza di ogni attività” (G. Agamben, op. cit., p.279), come in una serie di appunti per la fenomenologia della visione, quelli a suo tempo filmati da Andrea De Rosa dialogando con un non vedente su quello che “vedeva-non”. Infatti nel film più volte gli occhi chiusi che si aprono, ed è appunto un sentire con la vista: “Chiudendo gli occhi abbiamo ascoltato il suono delle navi”, “È tanto tempo che non torni in Giappone”, e da un giardino, con un carrello in avanzamento, attraversando i vetri, come risvegliandosi ci si ritrova in Giappone: viaggio a Tokio, viaggio (immobile) da e in Italia. Tutto attraverso un pulviscolo, un trascolorare, un flusso acquoreo, un galleggiare delle immagini nel vuoto, un riflettersi delle nubi nei cristalli d’acqua, finestre o monitor, distese urbane o naturali, indifferentemente, ponti sull’acqua e ragazze che suonano il flauto, per caso e per necessità, sincronicisticamente, in un sogno che confonde i tempi e lascia fluttuare i petali di ciliegio. 

Lo spazio dell’attesa è anche quello dell’attenzione (“È una gioia per me attendere” dice Noriko alla monaca buddista), dove non c’è altro che un apparire e uno sparire, un ritornare attraverso i corpi e le voci, attraverso il tempo in cui si depositano le cose, la luce rosata, le lanterne, il colore del buio. Ancora una volta la lingua morta che rinasce, come rinasce Noriko nella piccola Yuki, che legge Dante in italiano, mentre dice che la natura e le cose le parlano, in un sottofondo nascosto.

Bruno Roberti

ottobre-novembre 2010